Nel Giorno della Memoria, vogliamo ricordare anche un genocidio dimenticato per anni e riconosciuto molto tardi, quello di rom e sinti, con il termine Porrajmos che in lingua romanì significa “divoramento” oppure Samudaripen che significa “tutti morti”. È una storia di cui ancora oggi faticosamente si sta ricostruendo la memoria, una memoria non scritta, grazie a gruppi internazionali di storici e appassionati, secondo i quali morirono almeno 500mila persone.
Chi rom e…chi no ha partecipato al progetto internazionale Tracer – Transformative Roma Art and Culture for European Remembrance – iniziativa biennale finanziata dal programma Europeo Cerv per sensibilizzare soprattutto le nuove generazioni sull’importanza della memoria condivisa di questa tragedia.
Per il gruppo di Napoli, il progetto Tracer è stata una lunga immersione in acque sconosciutissime.
Le ragazze e i ragazzi che hanno costituito il gruppo, ci hanno seguito con fiducia e curiosità in una avventura storica che fino a quel momento non conoscevano e non li aveva riguardati se non in maniera indiretta. Per entrarci e iniziare a percorrerla abbiamo dovuto articolare un lungo e comprensibile percorso pedagogico artistico, culturale.
Seconda generazione di rom migranti dai paesi della ex Jugoslavia, in particolare Serbia, Macedonia, Bosnia, Croazia, alcuni di loro già genitori di una terza generazione di piccolissimi, i giovani di Napoli hanno portato con coraggio tutto il proprio vissuto di abitanti dei campi informali dell’area metropolitana, da Scampia a Giugliano in Campania, con tutto ciò che ne consegue.
Figlie e figli, nipoti di nonne e nonni che sono dovuti scappare dalla guerra nei Balcani, conservano nella memoria e nei racconti familiari soprattutto il vissuto delle pulizie etniche e il trauma della cancellazione di interi paesi, archivi, anagrafi, che si ripercuote ancora oggi sulla questione dei documenti e sulla difficile trafila per ottenerli, nonostante siano nati qui così come i loro figli.
Il racconto dell’Olocausto e del Porrajmos/Samudaripen è iniziato come una favola macabra che si svolgeva in un passato fumoso, fino a che piano piano non si sono definiti i contorni attraverso l’utilizzo di materiali audiovisivi, la raccolta di testimonianze dirette, in particolare di esponenti delle comunità rom e sinte di altre regioni d’Italia, e infine il viaggio ad Auschwitz che ha materializzato le parole dolorose, la sofferenza indicibile, le storie di comunità disgregate e di vite colpite a morte da un disegno istituzionale atroce, che oggi, finalmente e faticosamente si cercano di portare alla luce.
Con persone di tutta Europa e un gruppo di giovani rom e italiani provenienti da Scampia e Giugliano, abbiamo visitato Aushwitz dove nel blocco numero 13 erano state internate le famiglie rom e sinti. Lì è conservata la memoria e le storie di famiglie normali che vivevano tranquillamente in Germania fino all’avvento del nazismo e del terribile “registro della piaga zingara”.
Tra queste c’era la famiglia Rosenberg, che viveva a Berlino. Quando i nazisti decisero di “ripulire la città dagli zingari” per le olimpiadi del 1936 iniziarono a portare le famiglie nel campo di Berlino Marzan, da cui dopo poco verranno portati ad Auschwitz e uccisi. Quelli che furono maggiormente colpiti furono i bambini. Come quelli che finirono nell’orfanotrofio di Mulfingen, per essere studiati da Eva Justin, assistente di Robert Ritter direttore dell’”ufficio igiene razza” che fu aperto nel 37 per trovare una risposta scientifica al genocidio. Furono tutti portati a morire ad Auschwitz. Si salvò solo una bambina che una suora riuscì a salvare dandole un ceffone poco prima che salisse sull’autobus. “Tu non vai perché sei malata, non puoi andare in gita”, le disse. Queste sono alcune delle storie raccontate nel documentario del progetto Tracer “Memorijako Drom”, che significa “tracce di memoria”.
Ad Auschwitz furono deportati circa 23mila sinti e rom. Di questi 21mila sono stati uccisi.
Circa 10mila erano bambini, 380 nati nel campo. Lì Mengele aveva la sua baracca dove faceva i suoi atroci esperimenti. Pochi sanno che furono numerosi i Romanì che, scampati dalle deportazioni di massa, si unirono alla Resistenza. La loro conoscenza dei territori, soprattutto di quelli dell’Europa orientale, li rese indispensabili come staffette, per non parlare della loro capacità di lavorare in gruppo e della loro forza.
Nel bel mezzo dei laboratori di Tracer, come una specie di monito verso chi non ha memoria, accade un fatto terribile: la morte della piccola Michelle di 6 anni, folgorata dalla corrente elettrica il 13 gennaio 2024 nel campo di via Carraffiello a Giugliano in Campania. Per molti di noi, rom e non rom, non si può considerare un incidente. È la diretta conseguenza di un sistema che ha relegato centinaia di persone a vivere in condizioni talmente disumane che il vero miracolo è che notizie del genere non ci colpiscano come pugni ogni giorno. La responsabilità della morte di Michelle ricade su tutte le amministrazioni pubbliche, sui governanti, sui politici e su un’intera collettività che consentono che a pochi passi dalle proprie case, accanto ai campi coltivati di frutta e verdura che finiscono nei mercati e sulle tavole di tutti, famiglie composte per lo più da giovani adulti, adolescenti, bambini, vivano arrangiandosi come possono, appena raggiungendo la soglia della sopravvivenza, in un divario di disuguaglianza inaccettabile che dovrebbe generare una rivolta permanente.
La storia del passato si intreccia con la storia presente, in questa maniera crudele ma rivelatrice. Di fatto, da generazioni, intere comunità rom vengono ripudiate, isolate, disprezzate, annullate, isolate. Con i giovani del gruppo di Tracer, alcuni dei quali abitanti di quel campo di Giugliano che vengono letteralmente bloccati dalle forze dell’ordine e con difficoltà riescono a a raggiungere i laboratori, iniziamo a riflettere più concretamente sui parallelismi tra passato presente e futuro, sulla esigenza di ricordare ricostruire e non dimenticare, sulle ripercussioni concrete nella vita di tutti i giorni di politiche scellerate che ci sembrano così lontane, e invece.
Ripercorriamo insieme ai giovani di Tracer e ai ragazzi con cui facciamo i laboratori, le storie delle comunità rom mentre ci avviciniamo alla Giornata della Memoria che diventa una commemorazione molto più comprensibile e sentita di quanto non sia mai stata.